L’identità sacerdotale di Pio XII

Di seguito, il testo dell’omelia pronunciata dal Card. Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, nel 120esimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Papa Pio XII, martedì 2 aprile 2019, nella Basilica papale di Santa Maria Maggiore

La prima lettura molto suggestiva e la pericope giovannea parlano di acqua, di acqua che guarisce e capiamo che è Gesù a donare la guarigione mentre l’acqua è solo un simbolo della grazia del Signore. Ezechiele ci parla di una visione in cui egli vede il nuovo tempio e vede scaturire, dal lato destro di esso, un’acqua meravigliosa, che porta ovunque la salute, la vita, la fecondità. I Padri della Chiesa hanno riconosciuto, in questo tempio, il vero Tempio, Gesù: è dalla ferita sul lato destro del suo costato che uscirono sangue ed acqua, dal suo sacratissimo Cuore sacerdotale!

Ezechiele vede dunque il tempio e l’acqua che scaturisce dal lato destro e scorre verso il Mar Morto, che si trova a 20 Km sulla stessa latitudine di Gerusalemme, ma non alla stessa altezza: il Mar Morto è a circa 1.000 m. più in basso e quindi l’acqua può scendere da questa parte. Anche nel Mar Morto c’è acqua, ma è un’acqua appunto morta, che non ha in sé vita, perché è troppo carica di sale. Invece l’acqua che scende dal tempio è acqua buona, purissima e risana l’acqua del Mar Morto: “…quelle acque dove giungono risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà”. E’ la trasformazione che la grazia di Dio compie in noi e nelle nostre comunità. E’ la stessa acqua di grazia che scendendo sul capo del piccolo Eugenio ha largamente fruttificato in lui che, Sacerdote e Pontefice, egli – a sua volta – ha generosamente riversato sul gregge e sull’umanità intera.

E così nel mistero mirabile del cammino della grazia, il primo della classe del Liceo Statale Ennio Quirino Visconti, colui che conseguì la maturità “ad honorem” e che un tempo aveva pensato di iscriversi alla Facoltà di lettere dell’Università di Roma, matura diversa decisione e varca la soglia dell’Almo Collegio Capranica per vestire l’abito talare. Siamo nel 1894 ed è diciottenne.
Chi ha suggerito tale scelta? Nessuno in famiglia, nessuno fra gli amici. La scelta ovviamente viene da Dio, è Lui che sceglie, ma la risposta alla “vocazione” è tutta sua. Una risposta vissuta e maturata dentro di sé.
L’intelligenza, gemellata ad una memoria eccezionale, fa di lui uno studente del tutto eccezionale, tanto più che l’eccellenza negli studi si accompagna alla modestia. Così preclare doti non lo inorgogliscono per nulla perché, con molta semplicità, le pone a frutto per la sua anima e per la missione che sarà chiamato a svolgere.
Ordinato sacerdote il 2 aprile 1899, solennità di Pasqua, dal Vice Gerente Mons. Francesco di Paola Cassetta nella sua cappella privata, il giorno successivo, celebrava la sua prima S. Messa in questa stessa Cappella della Madonna Salus populi romani, dove stiamo celebrando ora.

E’ a tutti noi ben noto, dalla storiografia, il cammino folgorante del prete romano don Eugenio Pacelli che la Provvidenza di Dio ha portato fino alla cattedra di Pietro. Ma questa sera non intendo soffermarmi su quelli che un tempo si chiamavano i “sacri fasti”. Piuttosto, nella filigrana dell’Ordinazione presbiterale di don Eugenio, vorrei cercare di cogliere quella sacerdotalità, che mi pare abbia poi strutturato l’intero iter e servizio ecclesiale di questo chierico che è sempre stato tutto prete, solo prete ed è con tale caratteristica identitaria che ha vissuto egregiamente il ruolo di diplomatico, di Minutante in Segreteria di Stato, di Arcivescovo, di Cardinale, di Sommo Pontefice! L’asse portante è sempre stata l’identità sacerdotale, vissuta fedelmente in tutti i ruoli attraverso i quali si è trovato a servire la Chiesa.
Per me questa è la sua grandezza, una grandezza che si può cogliere davvero soltanto alla luce della fede, fede che è la bussola della vita. Alla luce del mondo si possono cogliere l’intelligenza, la cultura, le capacità diplomatiche, ma il nucleo essenziale di questa personalità ce lo fa cogliere solo la fede. In lui brilla sempre la visione soprannaturale, la rettitudine di intenzione. E’ alla luce dell’eterno che egli tratta anche le questioni della quotidianità. Questa coerenza è diventata anche motivo di gravi sofferenze, in parte a lui contemporanee e, in più larga misura, a lui postume, seppur presagite.

Ma cos’è l’identità? Nella comune accezione l’identità consiste negli elementi che ci descrivono e ci qualificano. La nostra carta di identità porta la nostra fotografia ed alcuni altri elementi che ci descrivono, sicché non si possa equivocare tra noi e un altro: questa è l’identità. L’identità sacerdotale, se pur non adeguatamente, coincide con la testimonianza che il sacerdote deve rendere a Cristo.
Primo elemento dell’identità: essere muniti di potestà divina, vicaria, da Dio: questa è l’essenza del sacerdozio. Qualcosa di talmente grande da far tremare innanzi alla fragilità dell’uomo. Pensiamoci: quando un sacerdote consacra nella santa Messa non dice “questo è il corpo di Cristo” ma “questo è il mio corpo”. Quando un sacerdote assolve in Confessione, cosa dice? Non dice “Dio ti assolva dai tuoi peccati” ma “Io ti assolvo”. Io!
Dunque, il primo elemento che cogliamo della identità del sacerdote è che quello che egli fa, lo fa in persona di Cristo, in persona Christi Capitis! (PO 2; LG 28). Don Eugenio, coerentemente, non ha mai velato la persona di Cristo. Egli, in verità, sentiva di essere una persona sola con Cristo e si è sempre impegnato a manifestarlo con umiltà. Sapeva bene che l’imposizione delle mani sulla sua testa, avvenuta con l’ordinazione del 2 aprile 1899, aveva impresso un carattere che neppure l’eternità avrebbe potuto mai togliergli. E questo è il primo elemento identitario.
Secondo elemento della identità sacerdotale è l’esercizio liturgico delle sacre celebrazioni. Lì il sacerdote agisce chiaramente in modo vicario rispetto a Cristo. Certo il sacerdote Eugenio Pacelli lo ha sempre ricordato molto bene nel suo stile celebrativo, con l’unico intento di rendere onore a Colui che lo aveva costituito Sacerdote in eterno e per edificare i fedeli. Non si ama il Signore se non si ama la sua maestà e non si adora la maestà se non si ama. Impossibile scindere queste due dimensioni: due cose che in Dio sono assolutamente inscindibili!
E qual è il terzo elemento della identità sacerdotale? Presentarsi come un perfetto cristiano. Certo il sacerdote non è perfetto ma deve almeno essere sempre impegnato nello sforzo di salire, una salita senza soste, senza ripiani, per arrivare ad essere immagine di Cristo anzitutto nel profondo, nella verità del proprio io, come pure poi nel modo di presentarsi, nel tratto, nelle doti di relazione. Tutti elementi inquadrabili nell’ambito della carità.
Il sacerdote Eugenio Pacelli sapeva bene che Gesù Cristo ha proclamato la propria identità a prezzo di vedersi condannare a morte. Era conscio del fatto che Cristo Signore ha insegnato ai suoi amici a proclamare la propria identità anche sapendo che la proclamazione della identità porta con sé una condanna a morte. Difendere la propria identità non fa stare comodi in questo mondo, affatto! Lo spirito del mondo vuole sempre il compromesso e non tollera la chiarezza ma il sacerdote deve rifarsi ad una logica ben diversa sapendo che è la verità a rendere l’uomo libero e forte. Chi non si accorgerebbe che queste sono tutte note caratterizzanti la sacerdotalità e la grandezza pastorale del venerabile Pio XII?

Da quel 2 aprile 1899, il Sacerdote Eugenio Pacelli è sempre andato avanti, senza soste, senza ripensamenti, senza contraddizioni con se stesso e col proprio carattere, con un solo oggetto da perseguire: il Regno di Dio, una regalità, quella di Dio, partecipata divinamente agli uomini, senza addormentature in sogni umani, in armonia con il Padre che è nei cieli, per condurre i fratelli non alle illusioni racchiuse in ideali meramente umani, ma alla Vita Eterna! Don Eugenio è andato avanti predicando con la croce in mano per mezzo della voce, della vita intera dedicata, offerta e sofferta, per mezzo del proprio sacrificio, per mezzo dell’amore. E’ andato avanti, passando anche attraverso umanamente prestigiose posizioni ecclesiastiche ma, direi, è andato avanti sanando ferite delle anime, lenendo piaghe doloranti e profonde, stabilendo ovunque pace per mezzo del perdono; testimone concreto della Parola di Dio proferita senza cedimenti alle mode e agli errori. E’ andato avanti consumando tutto per Dio e niente per sé, come il cero dell’altare che brucia tutta la materia per alimentare la fiamma. Ecco il filo conduttore della vita del Sacerdote Pacelli.

Considerando la sua vita mi viene spontaneo pensare che avesse sempre innanzi Gesù che percorreva città e villaggi, insegnando… predicando il Vangelo del Regno e sanando ogni infermità (cf Mt9,35-38), provando compassione per le folle stanche e abbattute come pecore senza pastore. La compassione evangelica, la carità pastorale che contraddistingue il Pacelli non è il vago sentimento con il quale molti guardano i miseri e tutti gli stracci umani di questo mondo, no! Neppure è un atteggiamento demagogico dal quale egli è sempre stato quanto mai alieno: in lui tutto è autentico! Per lui la compassione evangelica è dividere con gli altri la loro sofferenza, anzi è prenderla sacerdotalmente sopra di sé. E questa è l’anima dello spirito sacerdotale che, ritrosa da qualsiasi esibizionismo, arriva anche all’eroismo. Questa la nobilissima anima del sacerdozio che fa assumere, come fu di Cristo in Croce, la soddisfazione vicaria. Vedere gli uomini come l’attesa di Dio, come i figli adottivi di Dio, come i responsabili di una libertà che li può fare eletti e reprobi, ma che è la condizione del valore e del merito, temere per loro, pazientare per loro, sostituirsi a loro nella orazione e nella azione perché non perdano il loro posto in Cielo, è esaltante perché è assumere il contegno e lo stile di Nostro Signore Gesù Cristo, il Buon Pastore! Ecco che il “Pastor Angelicus”, felice espressione che verrà applicata a Pio XII e che verrà come “iconizzata” dalla famosa fotografia del 13 agosto 1943 nel quartiere romano di S. Lorenzo dopo i bombardamenti, è già nel cuore del Don Eugenio fin dal 1899.

Al momento dell’ordinazione don Eugenio era ben conscio di ricevere la carta regale di identità del sacerdozio di Cristo. Ma era anche ben deciso a corrispondervi con la tessera di riconoscimento del proprio impegno quotidiano: “Eccomi sono il servo del Signore”. Poiché “il sacerdote scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati (Eb 5,1), per il servizio a Dio negli uomini. Il sacerdozio di Cristo vissuto da don Pacelli ci mostra come l’uomo che serve Dio conquista la vera grandezza, comincia ad assumere quasi le dimensioni di Dio, diventa grande quasi della medesima grandezza di Dio.
Da questo magnifico sacello dove la romanità si fa marianità e che fu sempre tanto caro al cuore di Eugenio Pacelli per essere stato il suo primo cenacolo, unitamente a lui che, con gli occhi della fede, vediamo in Paradiso ai piedi della Salus Populi Romani, invochiamo una effusione di Spirito Santo sulla Chiesa intera e, soprattutto, sull’ordine sacerdotale, affinché, intimamente purificato nel Sangue dell’Agnello, possa rinnovarsi nella verità e nella santità!

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