«Quell’enciclica di Pio XII che ha preparato il Giubileo della Misericordia»

di Enrico Cattaneo
da La Nuova Bussola Quotidiana, 26.04.15

Nella Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia (Misericordiae vultus), Papa Francesco giustamente ha ricordato (n. 11) l’enciclica di san Giovanni Paolo II tutta dedicata alla misericordia divina (Dives in misericordia). Fu poi quello stesso Papa a istituire la Festa della Divina Misericordia nella seconda domenica di Pasqua. Ora nella Bolla, Papa Francesco afferma che già nell’Antico Testamento Dio rivela la sua peculiare natura, che è quella di essere un Dio “paziente e misericordioso”: questo «è il binomio che ricorre spesso nell’Antico Testamento per descrivere la natura di Dio. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante azioni della storia della salvezza dove la sua bontà prevale sulla punizione e la distruzione» (n. 6). Ora già Pio XII aveva sviluppato questo tema nell’enciclica Haurietis aquas del 15 maggio 1956. Era un’enciclica dedicata al culto del Sacro Cuore di Gesù e iniziava con le parole prese dal profeta Isaia: “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is 12,3).

Nei paragrafi 13-17, l’enciclica offre una chiave di lettura globale dell’Antico Testamento alla luce dell’amore misericordioso di Dio. Partendo dal concetto di «alleanza» come centrale di tutta la storia biblica, Pio XII afferma: «L’alleanza stipulata tra Dio e il popolo […] fu un patto non solo fondato sui vincoli di supremo dominio da parte di Dio e di doverosa obbedienza da parte dell’uomo, ma anche consolidato e alimentato dai più nobili motivi dell’amore. Infatti, anche per il popolo d’Israele la ragione suprema della sua obbedienza a Dio doveva essere non tanto il timore dei divini castighi […], quanto piuttosto doveroso amore verso Dio: “Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro e il solo Signore. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Queste parole, che oggi ti prescrivo, staranno nel tuo cuore” (Dt 6, 4-6)» (n. 14).

Se l’alleanza tra Dio e il suo popolo comportava precisi impegni, con minacce di sanzioni e castighi in caso di infedeltà, tuttavia «il fondamento di tutta la Legge era riposto in questo comandamento dell’amore» (n. 15). Lo avevano ben capito Mosè e i profeti, i quali «hanno descritto tutti i rapporti esistenti tra Dio e il suo popolo ricorrendo a similitudini tratte dal reciproco amore tra padre e figli, o dall’amore dei coniugi, piuttosto che rappresentarli con immagini severe ispirate al supremo dominio di Dio, o alla dovuta e timorosa servitù di noi tutti» (ivi). Quindi l’enciclica riporta una serie di passi biblici che non sono semplicemente una selezione arbitraria tra le tante possibili, ma che indicano una precisa traccia, la quale getta luce su tutto l’Antico Testamento.

Il primo passo riportato è tratto dal cantico di Mosè dopo la liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto, dove vengono usate «espressioni e immagini che riempiono l’animo di commozione: “Come un’aquila che addestra al volo i suoi piccoli e vola sopra di essi, spiegò [il Signore] le sue ali, lo sollevò e lo portò sulle sue spalle” (Dt 32,11 Vulgata)» (n. 15). L’enciclica poi invita il lettore a concentrare la propria attenzione su un profeta, poco co¬nosciuto, ma il cui messaggio è sconvolgente: «Forse nessun altro tra i profeti, meglio di Osea, manifesta e descrive con accenti veementi l’amore, mai venuto meno, di Dio verso il suo popolo. Nel linguaggio infatti di questo eccellentissimo tra i profeti minori per profondità di concetti e concisione di espressioni, Dio manifesta verso il popolo eletto un amore tale, cioè giusto e santamente sollecito, qual è appunto l’amore di un padre misericordioso e amorevole, o di uno sposo, il cui onore è offeso.

È un amore che, lungi dal raffreddarsi o venir meno alla vista di mostruose infedeltà e di ignobili tradimenti, prende sì da essi motivo per infliggere ai colpevoli i meritati castighi – non già per ripudiarli e abbandonarli a se stessi –, ma soltanto allo scopo di vedere la sposa resasi estranea e infedele, e i figli ingrati, pentirsi, purificarsi e tornare a riunirsi con lui con rinnovati e più saldi vincoli di amore» (ivi). Si tratta di una stupenda sintesi del messaggio di Osea, di cui vengono poi riportati questi versetti: «Quando Israele era fanciullo, io lo amai, e dall’Egitto ho chiamato mio figlio […]. E io ho fatto come da nutrice a Efraim; li ho portati sulle mie braccia, ma essi non compresero la cura che io avevo di loro. Li ho attirati con legami di uomo, con legami di amore […]. Io sanerò le loro piaghe, li amerò spontaneamente, perché la mia collera si è da loro allontanata. Sarò come rugiada: Israele fiorirà come giglio e getterà le sue radici come le piante del Libano» (Os 11,1.3-4; 14,5-6 Vulgata).

Il messaggio di Osea non è isolato, ma trova rispondenze anche negli altri profeti. In particolare l’enciclica cita un passo di Isaia, dove si descrive uno stupendo dialogo tra Dio e il suo popolo: «Sion aveva detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore si è dimenticato di me!”». Qui il popolo ha l’ardire di esprimere questo straziante lamento. Ed ecco qual è la risposta di Dio: «Può forse una donna dimenticare il suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? E se anche questa lo potrà dimenticare, io non mi dimenticherò mai di te! (Is 49,14-15)» (n. 16).

In questi testi profetici, l’amore di Dio per il suo popolo è espresso con immagini paterne e materne, ma esse non sono le uniche. In Osea compare anche l’immagine sponsale, che emerge in primo piano nel Cantico dei Cantici. Dice l’enciclica: «Né meno commoventi sono le espressioni con le quali l’autore del Cantico dei Cantici, servendosi del simbolismo dell’amore coniugale, di-pinge con vividi colori i legami di vicendevole amore, che uniscono tra loro Dio e la nazione da lui prediletta: “Come un giglio tra le spine, così l’amica mia tra le fanciulle […]. Io sono per il mio diletto, e il mio diletto è per me, egli che pascola tra i gigli […]. Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, inesorabile come gli inferi la gelosia: le sue fiaccole sono fiaccole di fuoco e di fiamme” (Ct 2,2; 6,2; 8,6)» (ivi).

Al vertice di questi testi, l’enciclica pone la profezia di Geremia sulla «nuova alleanza», dove Dio rivela il suo amore «misericordiosissimo ed eterno»: «Di un amore eterno ti ho amato e perciò ti ho attirato a me pieno di compassione. Ecco, verranno giorni, dice il Signore, e io stringerò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza […]. Questa sarà l’alleanza che avrò stretta con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Io metterò la mia Legge nel loro interno e la scriverò nel loro cuore, e sarò il loro Dio ed essi saranno mio popolo perché perdonerò la loro iniquità e del loro peccato non mi ricorderò più” (Ger 31,3.33-34)» (n. 17). Tuttavia questa rivelazione di un amore «veemente e sublime», presente già nell’Antico Testamento, non è che il preludio di quella ardentissima carità, che il Redentore promesso avrebbe riversato su tutti dal suo amantissimo Cuore, e che sarebbe dovuta divenire il modello del nostro amore e il fondamento della Nuova Alleanza» (n. 17).

Questa lettura che la Haurietis aquas fa dell’Antico Testamento alla luce del Nuovo, merita alcune osservazioni. Anzitutto, dice Pio XII, quei testi ci rivelano il «tenerissimo, indulgente e paziente amore di Dio, che, pur sdegnandosi per le ripetute infedeltà del popolo di Israele, mai giunse a ripudiarlo definitivamente» (n. 17). Questa affermazione, assieme a quella vista più sopra sull’«amore mai venuto meno di Dio verso il suo popolo» (n. 15), sono di capitale importanza per capire come un cristiano debba porsi nei confronti del popolo dell’antica alleanza,  e preludono a ciò che dirà qualche anno dopo il Concilio Vaticano II sul popolo ebraico (Nostra aetate,4). Anzi, si può dire senza sbagliarsi che queste affermazioni di Pio XII sono ancora più forti ed esplicite di quelle che saranno usate dal Concilio. Da qui si capisce quali fossero i reali sentimenti di Pio XII verso quel popolo.

In secondo luogo, se la lettura che Pio XII fa dell’Antico Testamento a molti oggi può apparire scontata, in realtà non lo era negli anni ’50 del secolo scorso, quando l’accesso dei cattolici alla Bibbia, e in particolare ai testi dell’Antico Testamento, era quasi nullo. E forse la lettura che ne faceva Pio XII non è scontata neppure oggi per la maggioranza dei cattolici, i quali a stento conoscono i Vangeli, poco o nulla sanno delle lettere di Paolo e ancor meno hanno qualche nozione su quello che noi chiamiamo Antico Testamento, e che di fatto costituisce la sacra Scrittura del popolo ebraico. Non è scontata neppure per gli esperti della Bibbia, perché conoscono fin troppo bene i testi dell’Antico Testamento dove si parla di “guerra santa”, di sterminio totale dei nemici, dove ci si augura che Dio “schiacci la testa” dei suoi avversari e che i cani lecchino il loro sangue (cf. Sal 68,22.24), e dove si dichiara beato chi prenderà i bambini babilonesi e li sfracellerà contro la roccia (cf. Sal 137,9).

La posizione consapevole che l’Antico Testamento solo letto alla luce del Nuovo perde il suo carattere di “scandalo” e rimane parola rivelata anche per i cristiani, è l’affermazione costante dei Padri della Chiesa. Tuttavia, fin dal II secolo, c’è stato chi, fondandosi erroneamente sulla “novità” portata da Cristo, aveva proposto di abolire totalmente l’Antico Testamento, considerato incompatibile con il messaggio evangelico. Tra l’Antico e il Nuovo vi vedevano delle “antitesi” inconciliabili. Ci riferiamo in particolare all’eretico Marcione, il quale, basandosi pretestuosamente su alcune affermazioni di san Paolo nella lettera ai Galati, opponeva la Legge e il Vangelo come due realtà tra loro contrarie: nella Legge (cioè nell’Antico Testamento) – sosteneva Marcione – appare un Dio severo, un Dio di giustizia implacabile, da cui deriva una religione fondata sul timore e sul terrore della legge, una religione da schiavi, triste e opprimente. Il Vangelo invece ci rivela il vero Dio, che è un Dio di misericordia e di perdono, un Dio che ti libera dal fardello della legge e ti fa entrare nella libertà dei figli.

Se questo è il «marcionismo», allora bisogna riconoscere che esso non è del tutto tramontato, ma che ci sono ancora ampie fasce di cristiani che la pensano più o meno allo stesso modo, opponendo la giustizia alla misericordia come realtà inconciliabili, dove Cristo è visto solo come il Redentore misericordioso e non anche come Colui che verrà a giudicare i vivi e i morti.

Ora Pio XII con l’enciclica Haurietis aquas, senza negare la realtà della giustizia divina, afferma una cosa fondamentale, e cioè che la rivelazione dell’amore misericordioso di Dio è un mistero ancora più grande della sua giustizia, e se è vero che esso si è manifestato con pienezza solo in Gesù Cristo, tuttavia esso non è una particolarità del Nuovo Testamento, ma costituisce anche il cuore della rivelazione veterotestamentaria. In questo modo si elimina definitivamente ogni tipo di «marcionismo», sia come disprezzo verso l’Antico Testamento, sia come esaltazione errata del Nuovo, come se fosse la rivelazione di un Dio solamente misericordioso, dove non c’è più né giustizia né giudizio.

Certo, dice Pio XII, rimane la differenza tra l’Antico e il Nuovo: «[La nuova] alleanza è da stimarsi incomparabilmente più nobile e solida, perché, a differenza della precedente, non è stata sancita nel sangue di capri e di vitelli, ma nel Sangue santissimo di Colui che quegli stessi pacifici e irrazionali animali avevano prefigurato come l’Agnello che toglie i peccati del mondo (cfr Gv 1,29; Eb 9,18-28; 10,1-17)» (n. 18). Il contesto però è sempre lo stesso, e cioè quel «patto di amicizia tra Dio e gli uomini» che Cristo è venuto a «ristabilire e a perfezionare» nel suo Sangue (n. 20). Per cui «l’alleanza messianica, più ancora che l’antica, si manifesta chiaramente come un patto ispirato non da sentimenti di servitù e di timore, ma da quell’amicizia che deve regnare nelle relazioni tra padre e figli, essendo essa alimentata e consolidata da una più munifica effusione di grazia divina e di verità, secondo la parola dell’evangelista Giovanni: “Dalla pienezza di Lui noi tutti abbiamo ricevuto, sì, grazia su grazia. Perché la legge è stata data da Mosè; la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo” (Gv 1,16-17)» (n. 18).

La pienezza portata da Cristo tuttavia non è solo la realtà della redenzione e dell’adozione filiale. Essa dà anche un tocco particolare all’eterna misericordia di Dio, ed è quella di esprimersi anche con l’affetto di un cuore umano: «Indubbiamente, l’amore nutrito da Dio per i nostri progenitori e per il popolo ebraico fu d’indole puramente spirituale; perciò, le espressioni di amore umano, sia coniugale sia paterno, che si leggono nei Salmi, negli scritti dei profeti e nel Cantico dei Cantici, sono indizi e simboli di un amore verissimo ma del tutto spirituale, con il quale Dio amava il genere umano.

Al contrario, l’amore che spira dal Vangelo, dalle lettere degli apostoli e dalle pagine dell’Apocalisse, dove appunto è descritto l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano» (n. 21). In altre parole, Gesù Cristo ci ha amati non solo con il suo amore divino, comune alle tre divine Persone, ma anche con quello derivante dalla sua volontà umana, che implica un amore sensibile, simboleggiato nel suo Cuore. Per questo è lui il “volto misericordioso” del Padre, quel volto che tutti gli uomini desiderano vedere.